La selezione delle candidature in Italia: tra Iran, Venezuela e Libia.

La preparazione delle liste per le elezioni del 4 marzo sono state un pessimo spettacolo per chi crede che i partiti debbano funzionare secondo i dettami dell’art. 49 della Costituzione, ossia con metodo democratico. La democrazia prevede regole chiare, processi trasparenti, partecipazione. Queste qualità non si sono mai trovate nei paraggi di Silvio Berlusconi che però, con una certa coerenza, non le ha neanche mai rivendicate. Colpisce di più quindi la condotta degli altri partiti chiave del sistema politico italiano.

A confronto con il 2013, sia il PD che Movimento 5 Stelle fanno passi indietro sul grado di democraticità della formazione delle liste. Il PD in particolare si spinge a vette di verticismo che rivaleggiano solo con quelle di Forza Italia. Se si guarda alla legislatura appena terminata si possono intuire le ragioni di questo fenomeno. Entrambi i partiti hanno pagato un duro prezzo alla scarsa coesione dei propri gruppi parlamentari, tra voti ribelli e cambi di casacche. Il problema è reale, ma le soluzioni non appaiono ispirate alle migliori pratiche internazionali.

Di Maio e Casaleggio hanno pensato di risolvere la situazione abbracciando il modello iraniano, dove il Consiglio del Guardiani può invalidare le candidature (prima) o il voto popolare (dopo). Renzi si è lasciato ispirare dal Venezuela: come Maduro ha esautorato il parlamento facendo strame della costituzione, così il PD ha derogato al proprio statuto per esautorare iscritti ed elettori. Liberi e Uguali, con la sua tregua armata tra fazioni, mi ricorda invece la Libia di Gheddafi. Vediamo qualche dettaglio in più.

Il Movimento 5 Stelle è l’unico partito che ha fatto esprimere la propria base su una parte considerevole delle candidature, ma dando a Luigi Di Maio (leader eletto) e Davide Casaleggio (leader per diritto ereditario) il potere di escludere candidature non gradite e cambiare l’ordine dei risulati. Sfortunatamente l’assenza di trasparenza del processo non ci consente di capire fino a che punto abbiano usufruito di questo potere.

Il Partito Democratico ha calpestato il proprio statuto, che prevede le primarie o altre forme di partecipazione, per affidare la selezione delle candidature al segretario nazionale. Questo potere è stato usato, come prevedibile (e forse anche oltre), per costruire un gruppo parlamentare che rimanga fedele a Matteo Renzi nella buona o nella cattiva sorte.

Liberi e Uguali non è un partito, ma la somma di tre organizzazioni che hanno lottato con il coltello tra i denti per far rieleggere i propri uomini chiave. La scarsità dei posti eleggibili è stata acuita dalla volontà Piero Grasso di riservarsi una quota di candidature provenienti dall’esterno. Di conseguenza, le proposte dei territori sono state spesso sacrificate in nome di più prosaiche esigenze.

Mi chiedo se questi criteri, che evidentemente non tengono che in minima considerazione la qualità del lavoro fatto dagli uscenti e il loro rapporto con il territorio che li eleggerà, non andrà ad aumentare il distacco tra piazza e palazzo, quello che tutti a parole dicono di voler colmare.

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