Verso il referendum costituzionale: una premessa

Quando un referendum si propone di cambiare in modo paradigmatico il funzionamento della nostra democrazia, non si può stare guardare. Non lo consente la stessa Costituzione, che infatti non prevede quorum perché la decisione popolare sia valida, e non lo permette il senso civico. Il dibattito che si sta animando soffre a mio avviso di due grossi difetti. Il primo, è che il voto al referendum sta diventando un giudizio sul governo in carica. È improprio perché, come scrive Emanuele Rossi nel suo saggio dedicato al tema, i governi passano e le costituzioni rimangono. Sarebbe più saggio attenersi al merito. Il secondo limite è che, anche a volerlo fare, il merito è complesso anche per gli addetti ai lavori. Scrive Stefano Ceccanti, citando Duverger, che bisogna combinare diritto e scienza politica per cercare di capire gli effetti che potrebbero avere innovazioni su cui ci apprestiamo a votare.

Per capire cosa votare ho sentito l’esigenza di mettermi un po’ a studiare nel merito, azzardando qualche considerazione sui possibili effetti della riforma. Ho pensato di dividere il mio lavoro in sette o otto brevi spunti di riflessione a cui si aggiunge questa premessa. Scrivendo un pezzo per settimana il percorso dovrebbe terminare a fine giugno.

Prima di cominciare bisogna ricordare come siamo arrivati a questa riforma. Dalla metà degli anni ottanta, e con più insistenza dagli anni novanta, gli attori politici e larga parte dell’opinione pubblica hanno manifestato l’intenzione di cambiare profondamente la natura della democrazia italiana in senso maggioritario. L’obiettivo dichiarato era quello di arrivare a una democrazia dell’alternanza, dove una temporanea maggioranza e una altrettanto temporanea opposizione potessero scambiarsi i ruoli a seconda del consenso riscosso alle elezioni. Arend Lijphart, celebre politologo olandese, ci dice che il dilemma fondamentale delle democrazie è a chi affidare il potere di prendere le decisioni in nome del popolo: una risposta possibile è “alla maggioranza”, mentre l’altra è “a quanta più gente possibile”. Le democrazie maggioritarie si ispirano al primo principio (esempio tipico, il Regno Unito) mentre le democrazie consensuali al secondo (esempio tipico, la Svizzera o il Belgio). Le democrazie maggioritarie concentrano il potere nelle mani di pochi, quelle consensuali lo disperdono tra molti attori. Come si intuisce, la democrazia maggioritaria è possibile solo se il paese è abbastanza omogeneo e non rischia di creare alienazione nei settori esclusi dal governo. Non è questo il luogo per chiedersi se un cambiamento da democrazia consensuale a maggioritaria sia veramente possibile o auspicabile in Italia. Quel che è interessante notare è che abbiamo avuto per anni un paradosso: in presenza di una diagnosi e di una terapia largamente condivise da classe politica e opinione pubblica (“ehi, bisogna passare a una democrazia maggioritaria!”) si è riusciti soltanto a cambiare più volte la legge elettorale e mai a riformare la Costituzione in senso coerente con quelle intenzioni. La riforma del titolo V del 2001, dando più poteri alle regioni, ha in realtà creato una dispersione del potere. Nella cosiddetta Seconda Repubblica l’alternanza di governo si è ottenuta grazie a leggi elettorali in grado di fabbricare maggioranze parlamentari a partire da minoranze elettorali (solo nel 2001 la Casa delle Libertà si avvicinò al 50% dei voti). Eppure i governi sono rimasti istituzionalmente piuttosto deboli, le coalizioni frammentate, il parlamento balcanizzato tra miriadi di gruppi, il processo legislativo farraginoso. È>mancato un intervento organico e di sistema capace di portare a compimento quella transizione da un modello all’altra che è rimasta in stallo, per usare le parole di Leonardo Morlino, e ha per questo aperto le porte a una nuova fase di instabilità.

Come potrebbe incidere questa riforma, se approvata? Che conseguenze potrebbe avere per il funzionamento del sistema politico italiano? Saremmo davvero vicini a “chiudere la transizione”, come ritiene Ceccanti? Domande a cui nessuno può dare una risposta certa, ma su cui ci divertiremo a riflettere insieme. La settimana prossima si parlerà di bicameralismo, portando a compimento le riflessioni cominciate tempo fa.

Lavori citati

Ceccanti, Stefano. 2016. La transizione è (quasi) finita: come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima : verso il referendum costituzionale. Torino: G. Giappichelli.

Lijphart, Arend. 2014. Le democrazie contemporanee. Bologna: Il mulino.

Morlino, Leonardo. 2014. ‘Transizione in Stallo E Conseguente Insabilità’. In La Transizione Politica Italiana. Da Tangentopoli Ad Oggi., a cura di Marco Almagisti, Luca Lanzalaco, and Luca Verzichelli, 197–221. Roma: Carocci.

Rossi, Emanuele. 2016. Una Costituzione migliore?: contenuti e limiti della riforma costituzionale. Pisa: Pisa University Press.

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Un commento su “Verso il referendum costituzionale: una premessa”

  1. La scheda di Renzi non è un facsimile, è un falso

    Ieri Renzi in TV a Otto e mezzo è stato (finalmente) incalzato da una giornalista sulla questione della scheda falsa denunciata ieri da questo blog. Il premier è rimasto senza parole, ha balbettato per un po’ e poi, come un bimbo che non sa cosa dire, l’ha sparata grossa: “La scheda che ho mostrato è un facsimile”. Ancora bugie davanti agli italiani. Quella scheda non é un facsimile. Un facsimile è per definizione è la riproduzione di un documento ufficiale, originale e esistente. Come riporta la definizione Treccani è la “copia esatta di scritto, stampato, disegno, oggetto, ottenuta mediante riproduzione fotografica o con altre tecniche: il f. d’un manoscritto, d’un documento”.
    Siccome la sua riforma non prevede l’elezione da parte dei cittadini e non esiste una legge elettorale per il senato, quella scheda non esiste. Quindi quello non è un facsimile, è un falso bello e buono per prendere in giro gli elettori. Un comportamento inaccettabile da parte di una persona che ricopre cariche istituzionali. Renzi deve ammettere che quella scheda non esiste. Vogliamo anche sapere chi l’ha materialmente prodotta e lo esortiamo quanto meno a non esporla più in questi ultimi giorni di campagna. Invito anche i giornalisti ad intervistare Renzi sul tema: vuole dirci cosa è quella scheda o no? La sua riforma dimezza il diritto di voto degli italiani, abbia il coraggio di dirlo e la smetta con i sotterfugi.
    Il presidente del consiglio ha anche detto che la denuncia annunciata da Danilo Toninelli non lo preoccupa, con i tempi a cui ha costretto la giustizia italiana come dargli torto. Fossi in lui mi preoccuperei del voto di domenica. Lì gli italiani voteranno nel merito e pochi saranno disposti a dimezzarsi il diritto di voto ora che le sue balle sono state smascherate.

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