“Corriamo la mezza di Genova?”. Un’idea estiva lanciata da Alessandro, vecchio amico e compagno delle prime corse, mi convince a rimettere le scarpette ai piedi dopo un anno di pausa, in cui le uniche prove contro il tempo erano state quelle notturne, con il traguardo situato in camera di Zeno. E Genova l’avevo corsa davvero tre settimane fa, con grande piacere e personale ritoccato di una quarantina di secondi: 1:42:04.
Alla fine non avevo molto da chiedere a Lucca, a cui mi ero iscritto per reazione quando uno stop nella preparazione mi aveva fatto temere di saltare l’appuntamento precedente. Invece Genova mi aveva lasciato appagato, e con qualche doloretto alle giunture. E poi il trittico Pasqua-25 aprile-primo maggio non lascia molto spazio agli allenamenti, soprattutto se hai dei bambini da intrattenere. Insomma, avevo fatto due allenamenti a settimana, brevi, e con il ritmo limitato da qualche acciacco.
A sconsigliare grandi aspettative anche le previsioni del tempo, con barometro a segnare temporali in arrivo. Comunque, il giorno arriva e si parte, sotto una pioggerellina proveniente da un cielo troppo grigio, che sembrava preludere a qualcosa di peggio. Parto indietro, e il primo chilometro è il solito slalom per acciuffare quelli che corrono al tuo passo. Le gambe sono pesanti, ma passo in 4:50. Vai così, mi dico. E penso a una strategia: provare a tenere questo passo per la prima metà e fare la seconda in progressione, muscoli permettendo. Nel frattempo acciuffo Michelangelo, che punta a fare un paio di minuti più del mio tempo di Genova. Mi accodo, e passiamo regolare al secondo e al terzo chilometro. Al quarto l’orologio segna 4:55, ho paura di accumulare troppo ritardo, saluto la compagnia e accelero un poco. Al settimo viene giù il diluvio. Al nono riprendo i pace-makers dell’1:45, e capisco che il problema non saranno tanto i muscoli, ma le vesciche. Ho sbagliato i calzini, maledizione, e con le scarpe ormai zuppe soffro. Arrivo al decimo, l’orologio segna 48:20; le gambe si sono sciolte. Ritoccare il personale fatto a Genova è più che possibile.
Passo a metà percorso e lo speaker ci incita: “forza, siete ancora in tempo a chiudere sotto 1:40!”. “Ehhh, che ottimismo!” rispondo ad alta voce, cercando conforto nei temporanei compagni di viaggio. Troppo sofferenti o concentrati per rispondere. Il cronometro dice 50:57. Moltiplicato per due fa poco sotto 1:42. Il personale è alla portata. Ma forse, se ne ho ancora…forse lo speaker ha ragione. Bisognerebbe assestarsi sui 4:40, il conto preciso non riesco a farlo al volo, ma non serve neanche. Devo dare tutto. Dodicesimo in 4:40. Riprendo un gruppetto di spezzini, che potrebbero andare ben più veloci ma fanno da pace makers a una loro amica. Facciamo il tredicesimo a 4:50. “A quanto volete chiudere?” chiedo. “1 e 44, qualcosa sotto se possibile”. Me ne vado, e fino al sedicesimo tengo i 4:40. La pioggia aumenta, e i piedi fanno male. Supero piano piano un po’ di corridori, e mi sembra di accelerare ancora. Ma è solo un’impressione. In realtà non riesco più a stare sotto i 4:50. Entrati dentro le mura mi supera una ragazza mingherlina, provo a reggere il suo passo ma non ne ho più. Se ne va. Un ragazzino, forse nordafricano, alto come me ma con delle gambe sottili come stecchi, mi supera a velocità doppia (che ci faceva dietro?). Lo guardo scomparire all’orizzonte. Mi supera anche un cinquantenne in canotta arancione che si autoincita ad alta voce. “Forza-dai-eh-forza-dai-eh”. Sprinto l’ultimo chilometro. Il real time dirà 1:41:00. Personale migliorato di un minuto. Dopo il traguardo sono stremato, intirizzito e squassato dalla tosse. Ma felice.
A questo punto l’1:40:00 mi sembra una montagna, a cui voglio però dare l’assalto. Arrivederci all’autunno.