La Pisanina 2019

Tutta la preparazione per la mezza di Pisa, con i suoi alti e bassi, l’ho condivisa a distanza con Alessandro. Sfidandoci in improbabili corse parallele, io sempre tra Lecce e Pisa, e lui in giro per i continenti. Ma dopo tre mesi a spiare vicendevolmente le nostre corse sulle moderne app (siano lodate!), oggi siamo qui insieme. Lui per battere il personale e scendere sotto 1:45. io per stare sotto i 100 minuti, ossia concludere sotto 1:40; anche di un secondo. Si tratterebbe di togliere un minuto al personale fatto in primavera a Lucca. “D’altra parte” – mi autoinganno – “sulla mezza per guadagnare un minuto bisogna limare 3 secondi al chilometro, mica tanto”. Beh, dipende da quanto margine ti concedono i tuoi limiti. I miei sono vicini, e ne sono consapevole.

Prepararsi a partire sotto la Torre mi fa sentire un po’ a casa, ma anche un po’ fuori luogo nelle vesti di podista. Vabbè, c’è poco tempo per questi pensieri, bisogna cambiarsi, lasciare la borsa e fare la consueta fila ai bagni chimici. Alla fine facciamo tardi, e nell’ansia di trovare l’ingresso giusto per entrare nelle gabbie di partenza mi ritrovo strizzato tra migliaia di persone senza aver fatto il necessario riscaldamento.

Male.

Pronti, attenti, via: si parte. Consueto slalom su e giù dal marciapiede per non rimanere intralciato tra i più lenti. Passo il primo km a 4:44, esattamente il ritmo che devo tenere fino alla fine. Lo prendo come un buon auspicio e tengo botta mentre corriamo sui lungarni, uno spettacolo. Quarto km in 4:36, e mi dico che devo darmi una regolata, o salterò come un tappo di spumante. Comincio a far caso alla frequenza cardiaca, che ogni tanto tocca i 180.

Molto male.

Per esperienza so che dovrei stare una decina di battiti più sotto. Cerco di correre un po’ più rilassato. Al sesto si imbocca via Livornese, mi accodo a un gruppetto di gente “di maglia, di lingua diversa”. Ma il ritmo è quello giusto. Trovo il tempo di scartare una mini caramella gommosa. Buona. Ma fatico. Il primo colpo psicologico arriva al nono chilometro, quando l’orologio vibra: 4:44 precisi, ma ancora180 battiti. Il poco ossigeno che arriva al cervello è sufficiente per capire che non ho speranza di proseguire per dodici chilometri così fuori soglia; dovrei rallentare. Resto invece fedele al piano: o la va, o mi spacco. Al tredicesimo salutiamo i compagni della maratona, loro vanno a sinistra, noi saliamo sul viale di Marina per tornare verso la città. Scarto la seconda e ultima caramella, e mi cade per terra. Maledizione. Mi sento come un bambino che ha fatto cadere in un tombino il suo giocattolo preferito. Al rifornimento del quattordicesimo rallento per bere qualcosa, ma invece di rilanciare mollo. Mi manca l’energia. Ho esagerato, questo passo non lo reggo più.

Non mi era mai capitato di saltare, e forse prima o poi doveva succedere. Ma come fare sette chilometri stanco e senza più motivazione? La motivazione va inventata. Prendiamolo come un allenamento. Faccio 3 o 4km sui 5:10, sento di me una ragazza, pisanissima, che confida a uno spettatore: “ho fatto la botta!”. Siamo in due. A metà del diciottesimo Alessandro mi riprende, coglie il mio sconforto e cerca di spronarmi: “Dai, finiamo insieme”. Provo a seguirlo, ma mentre il cuore continua all’impazzata le gambe non ne vogliono sapere. A 600 metri dal traguardo lo vedo andare via e faccio dieci metri camminando. Poi riparto, e sento Stefano che mi sprona: “dai, non mollare ora!”. Vedo i miei piccoli supporters alle transenne del traguardo, stendo la mano per dargli il 5 e sorrido. Il cronometro al polso segna 1:44:09. Brutta bestia la hubris. Ma non è detta l’ultima parola.

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