Special issue on “Policy Agendas in Italy”

It’s already ten years since Enrico Borghetto, Marcello Carammia and I started the Italian team of the Comparative Agendas Project. We were all young and full of enthusiasm for this enterprise. We started to collect data with virtually no funds, and thanks to the support of some more senior scholars. Slowly, the group produced a few articles.

And finally we managed to bring home this more ambitious work: a special issue on policy agenda in Italy, with articles written by a group of knowledgeable scholars.

I have co-authored the introduction and an article on budgetary politics.

Le scelte di voto dei miei studenti

Questa nota vuole offrire alcuni elementi per comprendere le motivazioni della scelta di voto degli studenti di scienze politiche dell’università del Salento.

IL CAMPIONE
I rispondenti non provengono da un campione statistico. Sono stati invitati a compilare il questionario tutti gli iscritti che si sono registrati come frequentanti ai miei corsi di scienza politica (2015/2016, 2016/2017 e 2017/2018) e di relazioni internazionali (2016/2017 e 2017/2018) lasciandomi un indirizzo email valido. Si tratta di 345 persone. Hanno risposto in 106, per un tasso di risposta di poco superiore al 30%. Si tratta in misura preponderante di residenti nel collegio plurinominale PUGLIA-02, composto dai collegi uninominali di Lecce (36%), Casarano (16%), Nardò (15%) e Francavilla Fontana (8%). Il 12% degli intervistati non ha risposto alla domanda.

OPINIONI, TEMI, LEADER
Nonostante la campagna elettorale condotta con messaggi opposti sull’andamento dell’economica, assai ottimistici da parte del Partito Democratico e piuttosto a tinte fosche per i partiti dell’opposizione, gli studenti sono per la maggior parte convinti che nell’ultimo anno la situazione sia rimasta stabile. Anche tra chi ritiene che qualche cambiamento ci sia stato, quasi nessuno ha percepito drastici mutamenti: ci sono piuttosto due gruppi di eguale consistenza per cui l’economia negli ultimi 12 mesi è migliorata o peggiorata in modo contenuto.

Quando devono pensare ai problemi più urgenti che il paese deve affrontare, gli studenti non hanno dubbi: per il 63,8% di loro è la disoccupazione, seguita a grande distanza dalla corruzione (7,6%), dalle tasse (6,7%), dalle politiche economiche dell’UE (6,7%) e dal debito pubblico. Se consideriamo anche le risposte relative al “secondo problema che il paese deve affrontare” si scopre che la disoccupazione è una priorità per il 78,9% dei partecipanti al sondaggio. Si tratta di dati ben diversi da quelli del resto della popolazione: secondo l’ultimo sondaggio Eurobarometro (maggio 2017) la disoccupazione è uno dei due problemi più seri per il 48,8% degli italiani, un numero in discesa dai picchi del biennio 2013-2014 quando il dato generale si avvicinava alla soglia del 70%. Questa maggiore preoccupazione per le difficoltà di trovare un’occupazione si spiega probabilmente considerando la fase della vita in cui si trovano gli studenti, che stanno per misurarsi con il mondo del lavoro, oltre che con la residenza in una regione dove la mancanza di lavoro è ancora più critica che nel resto del paese.

La divisione populismo/elitismo ha caratterizzato non solo questa campagna elettorale, ma è diventata un tema importante in tutta la politica occidentale. Cosa pensano gli studenti della distinzione tra popolo ed élite? Fanno propria una visione del mondo che contrappone i cittadini “buoni” alla casta corrotta? Per scoprirlo ho chiesto di dirsi più o meno d’accordo quattro affermazioni che giravano intorno a questa dicotomia. Dato che i risultati sono del tutto omogenei, ne presento soltanto una: “Se gli italiani potessero decidere sulle questioni politiche importanti in prima persona invece di affidarsi ai politici, per il paese sarebbe molto meglio”. La grande maggioranza dei rispondenti non condivide questa posizione.

Pria di passare al prossimo argomento, le scelte di voto, basti menzioanre che il giudizio sui vari leader (Di Maio, Salvini, Renzi, Berlusconi, Meloni) è molto negativo per tutti, tranne che per Di Maio.

LE SCELTE DI VOTO
Data la distribuzione del campione per comune di residenza, metterò a raffronto le scelte d voto dei rispondenti con quelle dell’intero collegio plurinominale PUGLIA-02. Il Movimento 5 Stelle è ampiamente il primo partito sia nel collegio che tra gli studenti, che non si discostano poi molto dalla popolazione generale in quanto a scelte di voto. La differenza più evidente è il limitato sostegno al centrodestra, che tra gli studenti è superato anche dal centrosinistra, e la maggiore incidenza del voto ai partiti minori e con posizioni più estreme (Liberi e Uguali, Partito Comunista, Potere al Popolo e Casapound).

Il profilo ideologico dei sostenitori dei tre poli del sistema partitico non desta sorprese. Sollecitati a scegliere il proprio posizionamento sull’asse sinistra-destra (sinistra =0, destra = 10) il gruppo degli studenti che hanno votato M5S si posiziona a metà (4,7), tra quelli di centrosinistra (3,0) e quelli di centrodestra (7,6). Più significativo notare che i supporters del Movimento 5 Stelle hanno un profilo ideologico meno omogeneo (deviazione standard più elevata), a conferma dell’appeal trasversale di quel soggetto politico.

Infine, i rispondenti avevano la possibilità di indicare le motivazioni del loro voto con una risposta aperta. Per quanto riguarda i votanti del 5 Stelle, emergono quattro motivazioni più ricorrenti. Quella di gran lunga più menzionata è la richiesta di novità, ben esemplificata dalla frase “…l’Italia in tutti questi anni è stata governata in rotazione da quasi tutti i vari orientamenti politici portandoci allo sfascio”. Altre due motivazioni piuttosto gettonate sono la condivisione del programma e in particolare l’accento sull’integrità morale (es: “Serve gente nuova ed onesta […] sarebbe un ottimo rimedio contro la corruzione, come citato e segnato in precedenza”. Si segnala infine un gruppo di studenti che potremmo definire come delusi dalla sinistra (es: “Mi ritengo un ragazzo di centro sinistra, credo nel welfare e credo in un’Europa che sia al centro del progetto politico di ampie vedute, seppur con le relative modifiche di alcuni trattati. Credo però anche che Matteo Renzi abbia eliminato il significato, gli ideali e i valori di sinistra”).

La destra, la sinistra, e l’Europa.

La politica sta diventando radicale perché radicali sono i conflitti che attraversano le nostre società. In un certo senso, i partiti mettono in scena ciò che si muove nel mondo reale, quello di cui tutti facciamo esperienza. Quando il cambiamento tecnologico e la globalizzazione hanno incrinato le certezze del ceto medio dei paesi industrializzati, la paura e il risentimento si sono trasformati in una clava con cui gli elettori hanno colpito il ceto politico di governo, quello che, per dirla con Peter Mair, per dimostrarsi responsabile ha smesso di essere rappresentativo. La politica non è però il semplice riflesso di un conflitto scolpito altrove, ma contribuisce a dargli forma. I partiti di estrema destra hanno capitalizzato lo scontento, che ha ragioni ben tangibili, promettendo il ritorno al bel mondo del passato, quando i confini dello stato ci potevano proteggere dal fastidio del diverso (l’immigrato) e quelli della morale tradizionale (dio, patria, famiglia) non mettevano in dubbio il principio di autorità.

Come suggerisce Hanspeter Kriesi, in Europa è emersa una nuova linea di conflitto che divide i vincenti e i perdenti della globalizzazione. Questi ultimi sono i poco istruiti, i lavoratori non specializzati, chi ha un sistema di valori tradizionali. Questi segmenti della società non hanno trovato alcun ascolto dai partiti della sinistra di governo, impegnati a portar avanti battaglie astrattamente sacrosante senza empatia per le persone in carne e ossa, e hanno cercato altrove la protezione di cui sentivano bisogno. L’hanno trovata spesso nei partiti sovranisti. D’altra parte noi predicavamo la formazione permanente mentre le industrie de-localizzavano, la meritocrazia in paese in cui la scuola cristallizza le differenze sociali, la necessità di spostarsi per trovare lavoro senza aver messo in piedi un mercato degli affitti sostenibile. L’Europa, oltre i suoi meriti e demeriti, è divenuta il simbolo di quella modernità destabilizzante a cui chiudere la porta.

Leggere questo processo come l’obsolescenza del conflitto tra destra e sinistra è però un’errore, perché si ferma alla forma che la politica, in particolare quella italiana, ha dato ai problemi della società. Eppure l’aumento della diseguaglianza e dell’insicurezza economica, la paura di perdere la propria posizione sociale o di non poterla preservare per i propri figli, sono alla base di molti dei nostri problemi. Se in Italia i partiti progressisti fino ad oggi non hanno saputo intercettare questo sommovimento, non significa che non ci sia più spazio per una proposta diversa. La sinistra non è affatto scomparsa: negli Stati Uniti Hilary Clinton ha ampiamente superato Donald Trump nel voto popolare. In Germania socialdemocratici, verdi e Linke raccolgono circa il 40% dei consensi. In Portogallo i socialisti governano con l’appoggio della sinistra radicale. In Gran Bretagna i laburisti stanno vivendo un forte rilancio con una linea politica che ha abbandonato il centrismo.

Il tema dell’integrazione europea, e più in generale la divisione identitaria tra nazionalisti e cosmopoliti, crea divisioni sia a destra che a sinistra. È per questa ragione che sta diventando più difficile formare i governi, in Portogallo, in Spagna, in Germania così come in Italia. Se i partiti devono negoziare non solo sulle questioni socio-economiche ma anche sul grado e sul tipo di integrazione europea che sono disposti ad accettare, la definizione di un programma comune diventa più difficile. Ecco perché non è così assurdo che il Movimento 5 Stelle possa trovarsi a negoziare alternativamente con il PD e con la Lega. Ha punti di contatto con entrambi, in uno spazio politico a due dimensioni. L’unico grande paese che non ha problemi a formare un governo è la Francia, grazie al suo peculiare sistema semi-presidenziale abbinato a un calendario elettorale in cui le elezioni legislative si tengono subito dopo quelle presidenziali: il presidente neo-eletto, in piena luna di miele, viene in genere premiato con una maggioranza in parlamento. È un modello da copiare? Ritengo di no, ma è una questione che merita di essere affrontata in un secondo momento.

Flussi elettorali, Pisa

Analisi dei flussi elettorali nel comune di Pisa: un confronto tra le elezioni politiche del 2013 e quelle del 2018.

L’analisi dei flussi elettorali mira a comprendere come gli elettori abbiano mutato il loro comportamento di voto da un’elezione all’altra. L’osservazione dei saldi non è sufficiente a capire se ci sono stati travasi di voti tra i vari partiti: basti pensare che anche percentuali invariate possono essere il frutto di notevoli cambiamenti delle scelte di voto a livello individuale. Sorvolando sugli aspetti tecnici della stima (vedi modello di Goodman) questo report presenta le tendenze più significative relative al voto per la Camera dei Deputati del 2018 nel comune di Pisa. I flussi stimati mettono a confronto queste ultime elezioni con le analoghe del 2013.

La tabella 1 pone a 100 il corpo elettorale del comune di Pisa, per cui i numeri nelle celle vanno interpretati come percentuali del totale degli aventi diritto al voto, che comprende anche chi si è astenuto (non si tratta quindi di percentuali di voto, dato che queste sono calcolate sui voti validi). Sulle righe sono riportati i partiti che si sono presentati nel 2018, mentre le colonne sono occupate dai partiti del 2013. Per alcuni partiti è stato necessario procedere a delle aggregazioni.

Tabella 1: Flussi tra politiche 2013 e 2018, corpo elettorale = 100 (Camera dei Deputati, Comune di Pisa)

2013
2018 PD M5S PDL Monti Altri CDX Altri CSX RivCiv Altri Ast. Tot
LeU 3.7 0.4 0.2 1.5 0.3 0.3 6.4
LN & FdI 4.5 4.2 5.2 0.7 0.3 1.5 16.5
FI & UDC 0.5 4.4 0.9 0.3 0.2 0.2 0.0 6.6
M5S 7.3 7.5 0.2 0.0 2.6 17.7
PD 10.8 1.3 1.7 2.8 1.0 0.5 18.0
Altri csx 1.1 1.0 1.7 0.3 0.3 0.3 4.7
Altri 0.9 0.3 0.3 0.1 0.5 1.0 1.0 0.3 4.5
Ast. 3.0 2.1 0.4 1.4 0.1 18.6 25.6
Tot 27.6 16.4 12.0 7.4 2.7 4.9 3.3 2.2 23.6 100.0

Nota: Elaborazioni dell’autore su dati del Comune di Pisa. Modello di Goodman con VR=23.

Nel complesso, il Partito Democratico ha perso molti voti passando dal 27,6% al 18,0% del corpo elettorale. La grande maggioranza degli elettori che nel 2013 aveva votato il PD non è stata fedele: le perdite più consistenti sono verso il Movimento 5 Stelle (7,3% del corpo elettorale), verso la Lega/Fratelli d’Italia (4,5%), e verso LeU (3,7%).  I nuovi voti, che sono assai meno, vengono invece da ex elettori del polo centrista di Monti (2,8%) a cui si uniscono flussi meno consistenti provenienti da varie direzioni. Il PD non perde e non guadagna dall’astensione.

Il Movimento 5 Stelle prende una percentuale piuttosto simile a quella del 2013, ma questo apparente immobilismo nasconde un netto cambiamento della sua base elettorale.  Il M5S perde il 4,2% del corpo elettorale verso Lega/Fratelli d’Italia, un altro 3% all’astensione. Attrae però, come già detto, una quota ingente di consensi dagli elettori che nel 2013 avevano votato PD, ed è il partito che più pesca dai vecchi astensionisti. In definitiva, i cinque stelle perdono a destra e svuotano il PD a sinistra, mantenendo uno scambio continuo con l’area dell’astensionismo.

A destra gli elettori che si identificavano con l’area tradizionale (PDL) sono oggi attratti in misura maggiore della coppia populista (Lega e Fratelli d’Italia) che non da Forza Italia e Udc. Questi ultimi, insieme, raccolgono poco più di un terzo dei votanti che cinque anni prima scelsero il partito di Berlusconi: il resto del loro esiguo consenso attuale è raccolto principalmente da ex elettori di Monti e del PD. L’elettorato di Lega e Fratelli d’Italia, che nel 2018 è stato pari al 16,5% del corpo elettorale, non ha nulla a che fare con la base elettorale del passato. Il loro consenso viene quasi in parte uguale da chi nel 2013 aveva votato PDL (5,2%), PD (4,5%) e M5S (4,2%).

Liberi e Uguali ha invece attratto prevalentemente ex elettori PD (3,7%) e una quota minoritaria di coloro che nel 2013 avevano optato per un partito minore della coalizione Italia Bene Comune (1,5% del corpo elettorale).

Le due figure che seguono, elaborate a partire dalla tabella precedente, permettono di farsi un’idea più intuitiva di cosa votarno nel 2013 gli elettori dei vari partiti attuali  (figura 1) e di cosa hanno votato nel 2018 gli elettori dei vari partiti del 2013 (figura 2).

 Figura 1. Provenienza dei voti 2018 (flussi in ingresso)

 

 

 

 

 

 

 

Figura 2. Destinazione dei voti 2013 (flussi in uscita)

 

Ovunque in ritirata i partiti tradizionali*

Se siamo convinti di trovarci di fronte a una rivoluzione inattesa, è perché siamo osservatori distratti di ciò che ci circonda. Le elezioni del 2018 non sono una rottura netta con il passato come lo furono quelle del 1994 o quelle del 2013. In quei due casi, separati da quasi venti anni di distanza, emersero nuovi partiti destinati a cambiare per lungo tempo gli equilibri politici italiani: Forza Italia e il Movimento 5 Stelle. Al contrario, in queste elezioni si consolida lo scenario tripolare che era già emerso nelle consultazioni di cinque anni prima, unico riferimento comparabile per dire qualcosa di sensato. Oggi il centrodestra è il primo polo con il 37,0%, seguito dal Movimento 5 Stelle con il 32,7% e dal centrosinistra con il 22,8. L’unico attore rilevante a scomparire è il polo centrista che fu guidato, senza grossa fortuna, dall’ex Presidente del Consiglio Mario Monti.
Tutti i commenti si concentrano sulle percentuali di voto, perché sono quelle che valgono per distribuire i seggi. Eppure, per prendere il polso del consenso, è più utile contare i voti assoluti. Il Movimento 5 Stelle, primo grande vincitore, guadagna poco più di due milioni di voti rispetto al 2013. Il centrodestra, la coalizione più votata, fa segnare esattamente lo stesso aumento. Cambiano però radicalmente gli equilibri interni: il declino elettorale del partito di Berlusconi, che perde quasi tre milioni di voti, è più che compensato dalla Lega di Matteo Salvini che ne guadagna oltre quattro. Il resto lo porta in dote Fratelli di Italia, che sotto la leadership di Giorgia Meloni ha più che raddoppiato i suoi consensi, attraendo 800mila voti in più del 2013. Dal lato degli sconfitti, la coalizione guidata dal Partito Democratico perde per strada due milioni e mezzo di voti, tutti in uscita dal partito di Matteo Renzi.
A ben guardare le analisi sui flussi elettorali, stimati con metodologie assai diverse dall’Istituto Cattaneo e dall’istituto SWG, una novità di rilievo c’è. I partiti populisti svuotano quelli tradizionali. Il Movimento 5 Stelle accoglie molti ex elettori del PD, mentre la nuova Lega cannibalizza Forza Italia. Il vento del populismo soffia forte sia in Europa che negli Stati Uniti, ma bisogna intendersi su cosa significa questa termine. L’essenza del populismo è la divisione della società in due parti nettamente contrapposte, una buona e una cattiva. Per i Cinque Stelle il ruolo dei malvagi è interpretato dai politici degli altri partiti, che si accaparrano privilegi a spese della gente comune. Per la Lega i cattivi sono gli stranieri che delinquono, e rubano lavoro e case popolari gli italiani. Si tratta di posizioni che fanno particolarmente presa quando la crisi economica morde e le forze di governo non riescono a migliorare in modo tangibile la qualità della vita dei propri cittadini. Non è facile scalfire queste narrazioni, e certamente non è possibile farlo mostrando che anche tra i Cinque Stelle ci sono degli opportunisti, o che l’Italia ha bisogno del contributo degli immigrati. Questi argomenti fanno breccia soltanto tra i più istruiti e tra gli appartenenti alle classi sociali più elevate, che paradossalmente costituiscono ormai lo zoccolo duro del consenso del Partito Democratico.
Non si possono capire le specificità italiane se prima non si inquadra il contesto internazionale. Dieci anni fa falliva Lehman Brothers, una delle maggiori banche d’affari degli Stati Uniti d’America, in quello che sarebbe passato alla storia come l’inizio ufficiale della grande crisi in cui siamo ancora impantanati. Da allora gli indici di diseguaglianza sono schizzati in alto dovunque, anche nei paesi che sono riusciti a far ripartire l’economia. I cittadini che più hanno pagato il conto sono quelli che già facevano fatica prima: chi abita in aree depresse, chi non può contare su una formazione elevata, chi ha lavori non specializzati. I partiti e i leader populisti, che pur esistevano già ma con un livello di consenso assai più basso, ne hanno ben rappresentato il senso di insicurezza. I partiti tradizionali sono in ritirata dovunque. Dal 2013 al 2017, in Germania, la somma dei consensi di Unione Cristiano Democratica e Partito Social Democratico è crollata di venti punti percentuali, dal 67,2% al 47,3%. Peggio è andata in Francia a Socialisti e Repubblicani, crollati nello stesso periodo dal 56,5% al 23,1%. Lo svuotamento di Forza Italia e Partito Democratico ci conferma che in Italia si sta svolgendo una variazione recitata sul medesimo canovaccio.

*Pubblicato sulla Gazzeta del Mezzogiorno – Lecce  (8 marzo 2018)