L’omicidio di Sergio Ramelli: i fatti
Sergio Ramelli era un giovane militante del Fronte Nazionale della Gioventù, l’organizzazione Giovanile del Movimento Sociale Italiano. Entrò nel mirino dell’estremismo di sinistra a causa di un tema scolastico in cui aveva espresso le proprie idee e condannato le Brigate Rosse. Il 13 marzo 1975, quando aveva solo 19 anni, fu vittima di un agguato; aggredito a colpi di spranga, morì qualche settimana dopo a causa delle ferite infertegli. Il suo omicidio si inserisce nel contesto di violenza politica che prende il nome di anni di piombo.
Il processo fu celebrato circa dieci anni dopo l’assassinio a seguito delle rivelazioni di alcuni pentiti dell’organizzazione Prima Linea, che chiamarono in causa il servizio d’ordine di Avanguardia operaia per l’omicidio Ramelli. La sentenza di primo grado inflisse condanne a otto dei dieci accusati, che all’epoca dei fatti componevano il servizio d’ordine di Avanguardia operaia che operava nella facoltà di medicina: i due autori materiali del pestaggio, riconosciuto come omicidio preterintenzionale, furono condannati a 15 anni. Il processo di appello si concluse due anni più tardi, nel 1989, confermando le condanne ma riqualificando il reato come omicidio volontario. La giustizia italiana ha riconosciuto che Sergio Ramelli è stato vittima di un gesto criminale, vittima di assassini mossi da un’ideologia eversiva, ed ha condannato i colpevoli.
È opportuno intitolare una piazza a Sergio Ramelli? Il caso di Lecce.
Facciamo un salto di oltre 30 anni dalla sentenza definitiva, oltre 45 dai fatti. Il Consiglio Comunale di Lecce ha proposto alla commissione toponomastica di intitolare una piazza o una via a Sergio Ramelli, aggiungendo alla dedica una coda ecumenica “E a tutte le vittime di violenza politica”. Non mi voglio concentrare qui sul processo che ha portato alla proposta per affrontare direttamente il tema centrale. È giusto e opportuno dedicare un luogo pubblico alla memoria di Sergio Ramelli? Il consiglio didattico dei corsi di Scienze Politiche dell’Università del Salento pensa di no, e ha elaborato un documento per chiedere al Comune di rivalutare la decisione. Ne è seguita una piccola polemica, un po’ confusa.
La discussione deve svolgersi sul giusto piano. L’intitolazione di un luogo pubblico a una persona, così come la costruzione di un monumento, sono atti squisitamente politici. Creano simboli pubblici, destinati a costruire e alimentare la memoria collettiva. Non si tratta di atti tesi a fare giustizia; per quello esistono i processi. Né si tratta di provare ed esprimere umana pietà, che ritengo doverosa, ma che rientra nel campo della sensibilità individuale. Questa premessa serve a sgombrare il campo da due argomentazioni che a prima vista sembrano convincenti, ma che sono in realtà fuorvianti, e su cui tornerò dopo.
Di cosa si discute davvero. Non di Ramelli, ma della pregiudiziale antifascista e dell’elaborazione di una memoria condivisa.
Sergio Ramelli era un giovane militante del Fronte Nazionale della Gioventù, organizzazione giovanile dell’MSI. Non si è macchiato di alcuna violenza. È ricordato come vittima della violenza della sinistra extraparlamentare negli anni di piombo. Quale messaggio politico culturale si trasmette intitolandogli un luogo pubblico? Quali processi si alimentano?
Lo dico in modo brutale: c’è il rischio concreto che oltre alla stigmatizzazione doverosa della violenza politica si renda omaggio alla cultura neo-fascista. Che la si banalizzi, la si metta sullo stesso piano delle altre, quando il suo rifiuto è alla base delle regole del nostro vivere comune.
Cosa sia stato il fascismo in Italia, non lo devo spiegare. La nostra Costituzione democratica fu scritta da forze molto diverse, unite però dal comune impegno nella lotta di liberazione. Il Movimento Sociale Italiano fu fondato da ex aderenti alla Repubblica di Salò, ed è stato a lungo un movimento chiaramente neo-fascista e contrario alla democrazia. Basti pensare che addirittura nel 1973 la Camera dei Deputati, su domanda del Procuratore generale della Repubblica di Milano, concesse l’autorizzazione a procedere contro Giorgio Almirante per il suo tentativo di ricostituire il partito fascista, sulla base di fatti risalenti agli anni 1969, 1970 e 1971. La sua parabola ideologica è stata lunga e articolata, ma la condanna del fascismo e dei suoi crimini è arrivata, non senza lacerazioni interne, solo con la trasformazione dell’MSI in Alleanza Nazionale. Dedicando un luogo alla memoria di Ramelli si celebra solo la condanna della violenza politica, si rende giustizia a una vittima innocente, oppure si tenta di riabilitare anche l’ideologia politica che professava? Un indizio per rispondere a questa domanda lo danno le manifestazioni neo-fasciste che si tengono ogni anno nel luogo dell’assassinio. Ancor più significative però sono le dichiarazioni di alcuni politici di primo paino, come l’europarlamentare Susanna Ceccardi, che oggi negano la rilevanza della memoria antifascista. È in corso un tentativo di banalizzare l’antifascismo, di rimuoverlo come fondamento condiviso della nostra Repubblica. Questo tentativo va respinto in modo fermo, perché il fascismo è un’ideologia autoritaria e violenta. Da studiosi ne possiamo comprendere le origini. Da democratici dobbiamo condannarla senza appello.
Nessun odio per Ramelli
Giorgia Meloni, intervenuta sulle colonne de “Il Giornale”, accusa il consiglio didattico dei corsi politologici di Unisalento di esercitare una forma di violenza politica, per aver chiesto al Comune di Lecce di non procedere con la sua iniziativa. Il titolo dell’articolo parla di “Odio rosso e infinito contro Ramelli”. Affiora qui l’incapacità di scindere tra persona e atto, un fenomeno che purtroppo, come sottolineato recentemente da Martha Nussbaum, è tipico di gran parte del dibattito politico e sociale contemporaneo. Ramelli fu vittima innocente di un crimine orribile, che ha avuto doverosa giustizia nell’aula di un tribunale della Repubblica italiana. L’ideologia a cui si ispirava il movimento politico in cui militava è aliena alla democrazia. L’umana pietà è un sentimento naturale quando si ripercorre la sua vicenda. Ma il piano su cui di discute è un altro, e dedicargli oggi una piazza significa usare il suo nome per un fine pericoloso.