Order flagyl online overnight spaNolvadex uk for sale Qualche riflessione sulla Brexit

Proprio ieri, scrivendo che con il mio cuore tifava Remain, ammettevo che la mia ragione fosse invece combattuta. Condivido molte delle Order prednisone without rxPhenergan tablets for sleeping preoccupazioni avanzate dall’Economist, la Brexit farà male alla Gran Bretagna e rischia di far esplodere le contraddizioni dell’integrazione europea.
Secondo me da questa crisi si uscirà soltanto in due modi, molto diversi: con il compimento dell’integrazione politica oppure con la dissoluzione dell’UE. Anni di collaborazione alle ricerche sulle élite politiche nazionali coordinate dal team di politologi dell’Università di Siena mi hanno fatto maturare la convinzione che oltremanica si sarebbero sempre opposti a un’integrazione politica più piena. Questo naturalmente può essere visto come un bene o come un male, a seconda delle preferenze di ognuno. Ma comunque la si pensi, la scelta per certi versi tragica degli elettori britannici apre un’opportunità.
Il grafico che riporto qua sotto viene da un sondaggio condotto nel lontano 2009 (prima della crisi quindi) sui parlamentari nazionali di vari stati membri. I risultati di quella ricerca sono stati pubblicati ormai su molti libri e saggi, tra cui questo che ho scritto con Maurizio Cotta. A seconda di molteplici domande rivolte a ogni intervistato, individuammo quattro “tipi” di parlamentare: gli Euro-entusiasti, gli Europeisti moderati, gli Euro-opportunisti e gli Euro-scettici. Nel grafico riporto la percentuale di Euro-scettici per paese. Non vi pare che ci sia un paese che si distacca un po’ troppo dagli altri?

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P.S. Ricerche più recenti segnalano che anche l’Ungheria si è spostata molto verso l’estremo Euro-scettico in questi ultimi anni.

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Categorie:Europa, Mondo, Politica Tag:

Cascina: qualche dato in cerca di analisi

23 giugno 2016 Nessun commento

La tornata delle comunali ha mostrato un PD in difficoltà a livello nazionale. Molte sono le sconfitte, che come da tradizione hanno pochi padri. Già dal giorno dopo si è infatti assistito al gioco dello scaricabarile, con poche lodevoli eccezioni.
A me interessa sopratutto il risultato di Cascina, il comune dove sono nato e cresciuto, che è finito in mano alla Lega. Come per tutti gli altri comuni persi, la sconfitta può essere spiegata con un mix di motivazioni nazionali e locali. A livello nazionale si pagano sia la disaffezione verso le forze di governo, fenomeno che si riscontra in molti paesi che soffrono la crisi, sia le difficoltà di uno scenario tripolare in cui il PD a guida renziana non sembra trovarsi a proprio agio. Non è un caso che i maggiori problemi del Partito Democratico si siano avuti al secondo turno, specialmente contro il M5S.
A livello locale, ogni comune fa storia a sé. Prima di cercare di capire cosa non ha funzionato a Cascina, vorrei mettere in fila qualche dato per capire se davvero la sconfitta, come suggerito da qualcuno, possa essere attribuita soltanto alla flessione nazionale.
Per avere qualche indicazione ho raccolto i dati dei comuni sopra i 15.000 abitanti di Toscana ed Emilia-Romagna che sono andati al voto nel 2011 e nel 2016. Sono 12, non molti, ma sufficienti per vedere quanto si è perso in 5 anni nel cuore della zona rossa, quella in cui la fine della geografia elettorale (per citare Diamanti) dovrebbe essee più evidente.
Nel primo grafico si vede che nel 2016 tra i votanti di questi comuni, trattati come un unico collettivo, il PD raccoglie il 31% dei consensi. Cascina è perfettamente in media, con poco più del 30%.

 

voti PD 2016

Le valutazioni si fanno però più severe guardando ai punti percentuali che si sono persi per strada in 5 anni. Cascina fa molto peggio della media (meno 4 punti circa), perdendo ben oltre 11 punti. Peggio fa soltanto Finale Emilia.

Liste PD

 

Vedere i risultati delle liste può essere fuorviante, perché è frequente che i candidati a sindaco si facciano appoggiare da liste civiche che cannibalizzano i voti del PD. Vale allora la pena vedere quanti punti percentuali siano stati persi complessivamente dai candidati a sindaco appoggiati dal Partito Democratico. Se possibile, questo accorgimento peggiora le cose rispetto alla precedente comparazione: Alessio Antonelli ha perso ben oltre venti punti percentuali, crollo che non ha eguali tra i candidati di centrosinistra nei 12 comuni considerati (con la parziale eccezione di Pavullo nel Frignano, unico caso in cui il PD non ha presentato una sua lista autonoma).candidati PD

Tutti questi grafici devono però essere letti insieme. Il PD a Cascina non fa molto peggio che negli altri grandi comuni della zona rossa. Soltanto che dilapida un capitale di consenso che era molto più alto della media. In ogni caso però, l’idea che la sconfitta abbia soltanto cause nazionali sembra non reggere alla prova dei numeri.

Non propongo grafici sull’andamento del ballottaggio, ma c’è un dato in controtendenza con il trend nazionale che rafforza l’idea di alcune specificità locali di cui tenere conto. Vari commentatori hanno fatto notare che al secondo turno il PD ha in genere perso con il M5S, che si è dimostrato capace di raccogliere i voti della destra. Non è quasi mai successo l’opposto: al ballottaggio contro i democratici, la destra non è in genere riuscita a raccogliere i voti pentastellati. A Cascina, al contrario, questo è evidentemente accaduto. Susanna Ceccardi è passata da 5486 a 8897 voti. Anche se avesse mobilitato tutti i suoi elettori del primo turno e conquistato il 100% di quelli di Michele Parrini (1509), avrebbe avuto bisogno di altri 1902 voti, che non possono che provenire dagli elettori a cinque stelle. C’è stato un fortissimo ricompattamento contro l’amministrazione uscente di cui è urgente comprendere le ragioni.

Verso il referendum costituzionale: una premessa

3 maggio 2016 Nessun commento

Quando un referendum si propone di cambiare in modo paradigmatico il funzionamento della nostra democrazia, non si può stare guardare. Non lo consente la stessa Costituzione, che infatti non prevede quorum perché la decisione popolare sia valida, e non lo permette il senso civico. Il dibattito che si sta animando soffre a mio avviso di due grossi difetti. Il primo, è che il voto al referendum sta diventando un giudizio sul governo in carica. È improprio perché, come scrive Emanuele Rossi nel suo saggio dedicato al tema, i governi passano e le costituzioni rimangono. Sarebbe più saggio attenersi al merito. Il secondo limite è che, anche a volerlo fare, il merito è complesso anche per gli addetti ai lavori. Scrive Stefano Ceccanti, citando Duverger, che bisogna combinare diritto e scienza politica per cercare di capire gli effetti che potrebbero avere innovazioni su cui ci apprestiamo a votare.

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Governo spagnolo, non è solo questione di addizioni

23 dicembre 2015 Nessun commento

Gli inglesi lo chiamano hung parliament, con un’espressione idiomatica che non ha facili traduzioni. Potremmo dire che è un parlamento in bilico, anche se la tentazione di pensare a un parlamento “impiccato” fa di tanto in tanto capolino anche nelle vignette anglosassoni. L’espressione designa un parlamento senza una chiara maggioranza, come quello spagnolo dopo le ultime elezioni, dove è difficile immaginare come farà a nascere un governo. Per capirci qualcosa di più, andando oltre alle schermaglie tattiche adottate dagli stessi partiti spagnoli nel dopo voto, bisogna guardare a tre cose: le regole di investitura del governo, i numeri del congresso, le teorie sulla nascita dei governi di coalizione.

Il parlamento spagnolo (Las Cortes Generales) è bicamerale, ma a differenza di quanto accade in Italia il governo ha una rapporto di fiducia solo con la camera bassa, il Congreso de los Diputados. Dal secondo scrutinio il voto avviene a maggioranza semplice: tra chi vota, i sì devono essere più dei no. L’astensione è irrilevante, e può essere usata dai partiti che non vogliono tollerare la nascita di un governo di minoranza pur senza appoggiarlo esplicitamente.

23_12_2015 Prosegui la lettura…

La fine dell’eccezione iberica

21 dicembre 2015 Nessun commento

Le elezioni in Spagna, con quelle portoghesi di ottobre, mettono fine all’eccezione iberica; oggi in tutti i principali paesi del Sud dell’Europa la crisi dei partiti principali è conclamata. Socialisti e popolari insieme raccolgono soltanto metà delle preferenze, sfidati da ben due nuovi partiti (Podemos e Ciudadanos) che cavalcano l’insoddisfazione per la politica tradizionale. Anche in Spagna, come già in Italia, Grecia e Portogallo, l’esito delle elezioni crea grosse difficoltà per formare il governo. Per avere la maggioranza nel Congreso de los Diputados il governo deve controllare 176 seggi: l’unica coalizione di due partiti che supera questa soglia sarebbe quella tra PP e PSOE, esclusa dal leader dei socialisti. Anche uno scenario alla portoghese, tutti contro il governo passato, è reso difficile dal fatto che Podemos e Ciudadanos sono divisi sull’asse destra-sinistra, e si dichiarano inconciliabili.
Cosa sta succedendo alla politica sud europea? Una prima risposta si legge nell’andamento asfittico dell’economia, che drena consensi ai partiti di governo. Dallo scoppio della crisi l’indice di disoccupazione, che è molto correlato con l’insoddisfazione per lo stato dell’economia, si è impennato in tutta l’area. Ed è ancora lontanissimo dai livelli pre-crisi, soprattutto in Spagna e Grecia.

21_12_2015

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